L’import-export dei rifiuti tessili ha ormai raggiunto volumi d’affari enormi, ma che fine fanno ...
L’import-export dei rifiuti tessili ha ormai raggiunto volumi d’affari enormi, ma che fine fanno i vestiti usati? Il 50% di quelli che vengono donati o destinati al settore del riciclaggio industriale, anziché al mercato dell’usato finisce a Panipat, a 90 km a nord di Delhi, la capitale mondiale del riciclo delle fibre tessili.
I rifiuti tessili arrivano in India via nave dai paesi occidentali in enormi balle. Nel distretto di Kutch, nell’India occidentale, lavoratori – spesso in condizioni poco salubri – procedono a una prima valutazione dei capi, a cui poi vengono tolti bottoni, cerniere, borchie e quant’altro. Sono poi suddivisi per materiali (lana/cotone/poliestere…) e colori.
I capi ancora buoni vengono esportati nuovamente, perlopiù verso il Kantamanto Market, il più grande mercato di abbigliamento usato dell’Africa occidentale, perché il governo indiano vieta la vendita di abiti usati di importazione per proteggere la manifattura locale. I capi destinati al riciclo sono ridotti in piccoli pezzi che vengono poi spediti al nord, a Panipat, dove vengono poi trasformate in filato in uno degli oltre 300 impianti di produzione di filati da fibre rigenerate.
Il processo di sfilacciatura, del recupero e della rigenerazione delle fibre tessili una volta era effettuato anche in occidente, ma progressivamente il settore è stato abbandonato per l’alto costo della manodopera, soprattutto per quanto riguarda le fibre sintetiche che sono quindi spedite in Cina e in India, a fronte del valore commerciale della materia prima seconda che è decisamente contenuto. In Italia storicamente la sfilacciatura veniva effettuata nel distretto tessile di Prato, dove oggi resiste solo il recupero di fibre più pregiate quali lana e cotone. Parte di queste fibre pregiate finisce però anche nel cumulo dei rifiuti spediti in oriente, che una volta scovate sono rispedite da noi come materia prima seconda, per lo più proprio a Prato che ogni anno importa circa 180 mila tonnellate di scarti di lana.
Il filato ottenuto a Panipat viene impiegato per produzioni tessili non pregiate, come coperte, tappeti e capi d’abbigliamento e accessori tessili a basso costo per il mercato domestico (85%) e per l’esportazione (15%). Oltre il 90% delle coperte di lana acquistate dalle agenzie umanitarie internazionali, come beni di soccorso negli aiuti alle popolazioni colpite da calamità naturali e guerre, proviene dalle industrie indiane.
Il settore del tessile è uno dei più inquinanti al mondo, responsabile di una quota significativa delle emissioni climalteranti, non solo durante il processo di produzione ma anche nel fine vita. Come ha evidenziato il rapporto “Fashion at the crossroad” di Greenpeace del 2017, nei paesi occidentali America compresa, gli indumenti usati non vengono smaltiti correttamente nei cassonetti appositi ma insieme ai rifiuti domestici impedendo di fatto l’avvio della catena del riciclo finendo nelle discariche e poi negli inceneritori.
Ad aumentare i rifiuti è poi la composizione stessa dei capi e il fenomeno del fast fashion che a fronte di un incremento esponenziale della produzione ha abbassato la qualità dei prodotti, prediligendo capi realizzati con combinazioni di fibra naturale e fibra sintetiche che sono poi difficili da rigenerare, in quanto le fibre non possono essere separate a basso costo.